In una Francia che si stava preparando alla rivoluzione impressionista e dove il realismo di Courbet ancora gettava terreno fecondo, un uomo, del tutto fuori moda rispetto alla linea maestra dell’arte moderna, andava riannodando le fila di una tradizione preromantica e visionaria, dominata da artisti quali Blake e Füssli.
Un uomo in controtendenza, che si allontanava dal suo tempo e dall’ideale baudelairiano del peintre de la vie moderne, per sprofondare negli abissi del sogno e nei miasmi dell’inconscio.
Gustave Moreau nato a Parigi il 6 aprile del 1826, era di sei anni più vecchio di Manet e di sette anni più giovane del suo omonimo Courbet, apparteneva a quella particolare generazione che si trovò costretta tra l’ombra dei grandi Maitres accademici e quella nuova ondata di artisti letterati, decisamente più borgesi e più radicati nelle problematiche della vita quotidiana.
Figlio di un architetto allievo di Charles Percier, fu educato dal padre ad un severo gusto neoclassico. La biblioteca paterna trasudava di testi antichi che il giovane Gustave indagò ed assimilò con passione.
Un viaggio in Italia nel 1857 contribuì a fortificare quei legami con la cultura classica che erano germinati precocemente nel suo animo di fanciullo. Anche in questo caso Moreau si dimostrò anticonformista.
Se il viaggio in Italia si adeguava a quel costume plurisecolare del Grand Tour e del Voyage en Italie si dimostrava, però, controcorrente rispetto alle destinazioni più esotiche predilette dai suoi contemporanei, spinti dalla ricerca di un’arte spontanea e primitiva. Moreau si sentiva pittore nel profondo e, come tale, tributava il giusto omaggio ai grandi maestri, copiandoli ed imitandoli fino ad assimilarne tecniche e mezzi espressivi.
Mentre il verismo imperante cercava di assimilare sempre di più l’arte alla vita, Moreau affinò la sua tecnica pittorica per compiere una rivoluzione solitaria: allontanandosi dal vero si rifugiò nel sogno per contrastare, così, una realtà che sentiva estranea e nemica.
“Non credo né a quello che tocco né a quello che vedo, non credo che a quello che non vedo e unicamente a quello che sento”, così dicendo Moreau reagiva al culto della natura per abbandonarsi ad un’arte fortemente intellettualizzata ed artificiosamente dotta.
I miti classici, le storie bibliche, le leggende dell’antichità e del medioevo, rappresentarono, per l’artista, quel prezioso bagaglio della cultura occidentale da cui attinse per elaborare le sue opere: trasposizioni personali e introspettive di quei miti, dove sesso, esotismo, dolore e morte si fusero nella sua preziosa e ricercata elaborazione pittorica.
L’ Apparizione del 1876, celebrato da Huysmans come l’icona di una nuova arte, è esemplare di questo costante richiamo ad un materiale figurativo e letterario preesistente, rielaborato attraverso una visione torbida e morbosa delle emozioni.
Qui Salomè esce dalla storia e dal tempo per assumere il ruolo della donna seducente e diabolica: la femme fatale che diverrà poi il leitmotiv della cultura misogina di fine secolo.
In notevole anticipo sul Simbolismo, ma con una grande indipendenza verso di esso e verso l’arte che l’aveva preceduto, Gustave Moreau si spinse al di là del visibile per indagare le verità celate nell’apparenza delle cose.
La conturbante mitologia di Moreau non è altro che il palcoscenico del dramma dell’inconscio, ove sentimenti di amore e di morte, di purezza e di perversione, si intrecciano indissolubilmente nella materia pittorica. Una materia che, nelle opere più mature, si ridusse ad un dialogo essenziale tra le magmatiche macchie di colore e la perfezione del disegno compositivo : i grumi dell’inconscio che si definiscono attraverso l’esattezza della linea.
Nascono così immagini complesse, dense di significati simbolici, che attingono al ricco magazzino di idee di Moreau e si arricchiscono di frammenti di medioevo, di brani del rinascimento e di un vasto repertorio di antichità.
Nell’antro segreto del suo spirito, nutrito di letture, le allegorie si accumulano, sublimandosi, alfine, nella magnificenza del suo lavoro artistico.
A lungo trascurato, come accidente della pittura del XX secolo, Gustave Moreau fu riscoperto solo dai simbolisti, che vedranno in lui un precursore del movimento, per poi giacere di nuovo, sotto un manto di oblio, fino agli anni Sessanta del Novecento.
“…quadri antichi che s’intuisce subito che non sono di un antico ma di quell’uomo che, solo, quando dipingeva i suoi sogni adunava intorno a sé quelle stoffe rosse, quelle vesti verdi costellate di fiori e di gemme, quelle teste gravi che sono di cortigiane, quelle teste dolci che sono di eroi, quelle gole montuose che sono il paese dove vivono tutte le cose da lui dipinte, perché la vita non diserta le cose per confluire tutta negli esseri, perché la montagna è leggendaria e la persona non è tale, perché il misterioso dell’azione è espresso da tutto quanto il viso della persona riserva (l’eroe che ha l’aria dolce di una vergine, la cortigiana che ha l’aria grave di una santa, la Musa che ha l’aria insignificante di una viaggiatrice non chiariscono minimamente l’azione che non sembrano compiere) e da tutto quanto il paesaggio riserva di complicità; perché gli antri nascondono mostri, gli uccelli dicono presagi, le nuvole gocciano sangue, e perché l’ora è misteriosa e sembra si intenerisca nel cielo di quanto si compie in modo misterioso sulla terra.”
( Marcel Proust “Note sul mondo misterioso di Gustave Moreau”, 1898)
